Georges Bensoussan, nel suo L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? (Einaudi 2014), scrive: “Oggi la Shoah è talmente commemorata da generare insofferenza. Essa, infatti, rappresenta la parte indicibile della memoria europea, la sua parte vergognosa, e illumina nella maniera più cruda la storia della lunga assuefazione allo sterminio degli ebrei”. Credo sia necessario partire da qui se vogliamo dare un senso a questa iniziativa. Una rivista sulla memoria, o sulle memorie? E, poi, memoria di chi e per chi? A più di settanta anni dalla liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau da parte dell’Armata rossa, quali ragioni ci possono essere in una intera rivista dedicata alla Shoah? Ogni 27 gennaio, quasi in maniera implacabile, il ricordo dello sterminio di quasi sei milioni di ebrei viene calato come un nero velo inesorabile su studenti, docenti, uomini politici. L’obbligo del ricordo genera abitudine, freddezza e insofferenza, come ricordato più sopra. Eppure, mai come in questo momento storico la Shoah rappresenta il vero “tornante nella storia dei diritti” (come Attilio Pisanò ricorda in uno degli articoli presenti in questo numero). Il tempo sembra affievolire o portare quasi alla smaterializzazione virtuale dei crimini lontani. Così, ricordando la famosa affermazione di Hanna Arendt sulla ripetitività dell’azione umana “anche se appartiene a un lontano passato” (Feltrinelli 2001), oggi per qualcuno sembra sia possibile sottoporre a una razionale e banalizzante revisione quanto accaduto tra il 1933 e il 1945. E proprio questa – lo ripeto – razionale e banalizzante revisione rende necessario ricollocare la Shoah nel suo giusto e appropriato alveo della storia dell’uomo. Se leader politici di una delle nazioni fondanti l’integrazione europea – la Francia – possono affermare quasi impunemente che le camere a gas naziste sono state un dettaglio della storia o, peggio, una questione “irritante” (sulla questione si veda Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani 1998) allora la sofferenza immane dei sopravvissuti che hanno percorso chilometri per dare voce ai loro fratelli assassinati risulterà fondamentalmente inutile. Il negazionismo alza la testa in maniera sempre più decisa. Più testimoni diretti del massacro o sopravvissuti scompariranno, e più voci esaltate grideranno raucamente le loro aberranti tesi. Assolutamente illuminanti, a questo punto, risultano anche le opinioni degli sconfitti e degli eredi degli sconfitti. La “personalizzazione” della storia (come ci spiega Francesca Romana Recchia Luciani) ci aiuta a comprendere l’orrore provato dagli eredi dei criminali nazisti e il loro senso di inadeguatezza. Attenzione: criminali nazisti e loro figli che mai hanno negato la brutalità e l’attuazione (sino agli ultimi giorni della guerra) del disegno omicida nazista. Basterebbe citare qui la freddezza espositiva delle memorie di Rudolph Höss (Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss, Einaudi 1985) o i racconti meticolosi di Franz Stangl (Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi 1994), comandanti dei campi di Auschwitz-Birkenau e di Treblinka, per concludere con le gelide e aberranti dichiarazioni di Adolf Eichmann, rimaste inedite per un lungo periodo e ora finalmente disponibili (che fortemente contrastano con la figura da grigio burocrate con cui si era presentato durante il processo di Gerusalemme del 1961. Si veda a tal proposito  Bettina Stangneth, Eichmann Before Jerusalem: The Unexamined Life of a Mass Murderer, The Bodley Head 2014). Anche in questo caso, l’utilità della letteratura diventa determinante, e in questo filone della storia osservata dalla parte degli sconfitti si muove il lavoro di Anna Chiarloni. Un racconto su generazioni tedesche estenuate dalla guerra e dalla ricostruzione e dal nuovo confronto di ideologie sempre più forti e totalizzanti. Una storia che finisce quasi come “un teatro di rovine segnato dal malessere della memoria”. Già, il “malessere della memoria”. Una memoria troppe volte manipolata, rivoltata, tradita se non – addirittura – stuprata. Come definire, altrimenti, quello che alcuni apologi del nazismo hanno provato a fare. Una protervia e arroganza che, per fortuna, si è ritorta contro di loro. La rivincita (se non la vendetta) della memoria si è chiaramente materializzata nel processo per calunnia contro la storica Deborah Lipstadt intentato da David Irving (a questo proposito si consiglia vivamente la lettura di Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth Memory, Penguin 1994). In questo caso, la giustizia inglese ha definitivamente sancito la menzogna dell’appartenenza di Irving alla comunità degli storici ma, soprattutto, la chiara falsità delle sue affermazioni sulla inesistenza della Shoah. Eppure, queste sono idee che continuano a ferire e umiliare profondamente gli ormai pochi sopravvissuti. Nuove truppe negazioniste si consolidano arruolando nuove generazioni. Generazioni che, in epoca di crisi, vengono attratte da ideali mistici senza etica alcuna e che difendono, proteggono e rafforzano l’”uno” a scapito dei “molti”. Quegli stessi ideali che, agli inizi del secolo scorso – ancora in un momento di crisi – avevano attratto il sangue giovane verso il nazismo e il fascismo. La questione del fascismo rimane ancora particolarmente delicata in Italia. Solo una parentesi, un “bubbone purrulento” come lo definiva Benedetto Croce, o un figlio legittimo della storia italiana? Non credo sia azzardato affermare che, a oggi, non si siano fatti fino in fondo in conti con il passato fascista. Nello specifico, sembra che ci sia una memoria selettiva che impedisce un giudizio morale e giuridico completo su quegli anni. Pochi hanno affrontato le piene responsabilità della politica razziale del regime. Molti dimenticano la piena adesione alle leggi razziali del 1938 e di come la società italiana le metabolizzò. Soprattutto la scuola. Per questa ragione, il lavoro di Chiara Acciarini appare quanto mai opportuno e specifico. Leggi razziali che esclusero dalla realtà sociale uomini e donne che tanto stavano dando alla nazione. A trent’anni dalla tragica scomparsa di Primo Levi, il ricordo che ne fa Dunia Astrologo ci riconsegna le parole – a volte troppo citate ma ben poco comprese – dello scrittore e scienziato torinese. Naturalmente, non deve essere trascurata la reazione internazionale alla nascita e allo sviluppo del regime fascista. Da una iniziale linea di credito ad una successiva critica, per poi tentare il riavvicinamento nel tentativo di rompere quella che Frederick William Deakin ha definito – e non senza ragione – “la brutale amicizia”. Amicizia, invece, che mai si sviluppò completamente con gli Stati Uniti (possiamo dire in maniera inevitabile, nonostante le speranze di Dino Grandi). Il quadro che ne esce dall’articolo di Gian Giacomo Migone risulta chiarificante per la sua precisa analisi. La didattica della Shoah è sempre stata una questione estremamente delicata. Per chi si occupa di questo argomento, la proposizione agli studenti di una tematica tanto complicata quanto brutale ha sempre rappresentato una sfida malagevole per docenti ed educatori. Quali strumenti adoperare? A quali studenti rivolgersi? In questa direzione – e non solo per dovere di cronaca – mi sento di dover sottolineare il grandissimo lavoro svolto dalla casa editrice del Museo di Auschwitz che da anni traduce e pubblica (anche in italiano) testi fondamentali sullo sterminio degli ebrei. Questo meritorio lavoro viene qui illustrato da Jadwiga Pinderska, a cui va il nostro sentito ringraziamento. Nell’ambito della didattica della Shoah, segnalerei un ulteriore e possibile mezzo di racconto e diffusione della memoria: la filmografia sulla Shoah. Argomento, lo premetto, non semplice, per il rischio di indicare a volte film non adeguati se non, addirittura, deleteri. Sarò sincero, segnalandovi il lavoro di Marco Brunazzi so che avrete un ottimo punto di riferimento. Questo, lo dico subito, è solo il punto di partenza. Nulla si chiuderà qui, compito di storici e studiosi è l’analisi obiettiva dei fatti corroborata dalla presenza di documenti attendibili. La memoria della Shoah è un impegno estremamente gravoso… e lungo. È come raccogliere un testimone dalle mani e dagli occhi segnati dal dolore dei testimoni e dei sopravvissuti. Questo ci consegna una responsabilità enorme che ci costringe a essere rigorosi perché, come ha scritto Vasilij Grossman in L’inferno di Treblinka, (Adelphi 2010): “Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità. Chiunque giri le spalle, chiuda gli occhi o passi oltre offende la memoria dei caduti”. Prof. Daniele De Luca docente di Storia delle Relazioni Internazionali dell’Università del Salento